mercoledì 20 settembre 2017

LA SAGA DEL “SANGUE DEI VINTI”

[Pubblichiamo questo contributo del compagno Ermanno Torrico, 
Direttore Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione “E.Cappellini”-Urbino.]


La mostra fake di Fossombrone sui cimeli fascisti dell’Italia imperiale, roba da rigattieri per nostalgici del ventennio, nel suo piccolo era una delle tante schegge di un revisionismo dilagante. Un lungo percorso, più che ventennale, intenzionato a demolire il legame indissolubile tra la Resistenza e la Costituzione dell’Italia democratica e repubblicana. Un processo alimentato dapprima in forma anodina, quasi sommessa, da gran parte della stampa italiana e poi esploso con la pubblicazione de Il Sangue dei vinti di Giampoalo Pansa (2003) fino al recente con Il mio viaggio tra i vinti. Neri, bianchi e rossi (2017). In mezzo altri titoli significativi: La grande bugia. La sinistra e il sangue dei vinti, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Bella ciao. Controstoria della Resistenza, I vinti non dimenticano. I crimini ignorati della nostra guerra civile, Il revisionista, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti. Il successo fra il grande pubblico, dovuto all’abilità comunicativa dell’autore, ha trasformato i temi del revisionismo antiresistenziale in luoghi comuni diventando per Pansa un’ossessione. Un modo di raccontare la Resistenza come una macelleria responsabile del “sangue dei vinti” e l’adozione di un discutibile trattamento e utilizzazione delle fonti in gran parte orali o attinte dalla memorialistica repubblichina del dopoguerra affondata nel risentimento e nelle rimozioni, fino alla vulgata sulla RSI di Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia.1943-45 che per la prima volta contrapponeva alla “guerra di liberazione” la “guerra civile” e toglieva dal “limbo storiografico” la RSI per la prima volta considerata come autonomo oggetto di studio e di ricerca.
E tuttavia il revisionismo antiresistenziale non si ferma mai malgrado l’evidente sdoganamento. E’ fresca di giornata (Corriere della Sera di domenica 17), la notizia che in occasione del 2 novembre, ricorrenza dei defunti, l’assessore alla sicurezza del Comune di Milano, Carmela Rozza (nomen omen?), sarebbe intenzionato a deporre il 2 novembre, nel cimitero milanese di Musocco, due corone: una dedicata ai caduti della Resistenza e l’altra a quelli della RSI. Se avvenisse sarebbe  molto grave perché il revisionismo otterrebbe, di fatto, un  riconoscimento di grande significato simbolico dopo una lunga marcia condotta con ogni mezzo speculando sul “sangue dei vinti”. Otterrebbe, finalmente, la parificazione, in nome di una supposta  “guerra civile”, tra  fascisti e partigiani,  tra coloro che si batterono per riscattare l’onore del Paese  e dettare i fondamenti della Carta costituzionale, e i fascisti repubblichini che collaborarono con  i nazisti invasori nei rastrellamenti e nelle stragi dei civili.
Il revisionismo antiresistenziale fa appello alla emotività generalizzando attraverso la stampa e i social singoli episodi come quello controverso della tredicenne Giuseppina Ghersi, uccisa barbaramente da alcuni partigiani, mai individuati, tanto che il processo intentato dalla sua famiglia nel 1949 si concluderà con un nulla di fatto. Le testimonianze sono discordanti: i partigiani affermano che fosse una spia  dei repubblichini a cui passò informazioni che determinarono l’arresto e la morte di numerosi patrioti, i familiari, invece, sostengono che “Pinuccia” si limitava a frequentare e intrattenere  la soldataglia repubblichina che si riforniva nel negozio di generi alimentari da loro gestito. Nel Savonese furono 500 i partigiani caduti in combattimento e 250 i civili uccisi per  rappresaglia dai tedeschi e dai repubblichini. Non erano tempi normali e qualche eccesso era inevitabile, sebbene condannato e punito dai comandi partigiani .
Ora succede che il sindaco di  Noli, un piccolo Comune nei pressi di Savona,  intende  dedicare alla Ghersi una lapide da collocare, guarda caso, in una piazza intitolata ai  fratelli Rosselli. Sul caso  Ghersi si è imbastita una vera e propria campagna nazionale di denigrazione sistematica della Resistenza cui fa da corollario l’intenzione di Forza Nuova di organizzare il 28 ottobre, nel 95° anniversario della marcia su Roma del 1922, una manifestazione contro lo ius soli e gli stupri degli immigrati che “hanno preso d’assalto la nostra patria”. Non bastasse succede anche che incontra difficoltà in Parlamento  l’approvazione della legge Fiano che introduce nel C.P. un nuovo articolo per armonizzare la legge Scelba del 1952 e la  legge Mancino del 1993 contro l’apologia del fascismo, anche attraverso la vendita di cimeli, e la propaganda fondata sulla superiorità o l’odio razziale. L’intento è di sanzionare condotte penalmente rilevanti con una normativa più precisa e cogente che colpisca più concretamente il razzismo, la xenofobia, l’odio religioso e l’antisemitismo. Tutte manifestazioni che sono la punta  dell’iceberg di un diffuso degrado culturale che in Europa ha messo radici anche in società che vantano solide basi democratiche. Esse cavalcano il malcontento sociale, la rabbia, la paura e l’insicurezza di questi tempi.
Va detto che la storia si nutre di documenti e ricerca sempre la verità. Ma la storia emette dei giudizi e quello sul fascismo e le tragedie morali e materiali che ha provocato non possono essere messi in discussione e la parificazione tra i resistenti e i repubblichini è semplicemente aberrante.
Quanto alla “guerra civile” la RSI non nasce per iniziativa autonoma del fascismo mussoliniano, ma per imposizione di Hitler al punto che Radio Monaco ne diede notizia prima ancora che essa fosse effettivamente costituita, né l’arresto di Mussolini all’indomani del 25 luglio del 1943 provocò alcuna manifestazione di protesta nella popolazione che voleva solo la fine della guerra, dei bombardamenti e del “pane nero” riversando la sua rabbia nella distruzione dei simboli del regime ritenuto responsabile di un dramma collettivo. Lo stesso avvenne dopo l’8 settembre che non è stato la “morte della patria”, ma l’inizio della sua rifondazione su basi nuove e democratiche contro le ambiguità badogliane e il vile comportamento della monarchia.
É solo in  contrapposizione alla Resistenza che i tedeschi impongono a Mussolini di fondare la Repubblica di Salò, né voluta, né richiesta dagli apparati, tantomeno dall’esercito, rimasto fedele alla monarchia, e da gran parte della popolazione dei territori che ricadevano  nella giurisdizione repubblichina nel contesto drammatico di un’ Italia divisa da eserciti occupanti contrapposti: gli Alleati nel centro-sud e i tedeschi nel rimanenti territori con l’obiettivo di rallentare il più possibile l’avanzata alleata verso nord e allestire e lasciarsi aperta  una via di fuga.
Quale parificazione si attendono i revisionisti? Il loro intento è chiaro e scoperto: essere considerati non più tra gli autori di crimini, ma leali combattenti anche se collaboratori dei nazisti  nei massacri dei civili e nei rastrellamenti contro i partigiani.  Se tutti i morti sono uguali ne consegue che tutti  sono stati combattenti onorevoli come se il morire schierati al fianco delle SS avesse lo stesso valore che l’essere morti combattendo per un’Italia libera e la sconfitta del nazismo. E dunque l’indistinto rispetto dovuto a tutti i morti non  può trasformarsi nel rispetto per le ragioni di coloro, i repubblichini, che condividevano l’ideologia nazista. Aderire alla RSI da parte dei cosiddetti “ragazzi di Salò”, non è stato un atto di coraggio. Molti di loro erano spinti a farlo per paura dei bandi di arruolamento e chi disertava poteva essere fucilato o deportato. La loro adesione fu un atto di viltà. Avevano tutto: armi, divise, cibo e danaro, caserme attrezzate e la protezione dei tedeschi. Erano arroganti e feroci. Il coraggio non era il loro, ma dei giovani che decisero di andare in montagna e di combattere per cacciare lo straniero. So benissimo che altri repubblichini (si veda ad esempio il romanzo autobiografico A cercar la bella morte di Carlo Mazzantini (1986), e prima ancora, nel 1953, ma la prima stesura risale al 1945, quello più problematico di Giose Rimanelli, Tiro al piccione, la storia di un giovane che vede la Resistenza  dalla parte sbagliata),  fecero una scelta per convinzione e non perché costretti o per paura. E combattevano da fascisti, convinti di quello  che facevano e proprio per questo erano, per quanto possibile, ancora più feroci.
Non può e non potrà mai esserci condivisione e tanto meno pacificazione/parificazione tra il partigianato e i repubblichini. L’ipocrisia del revisionismo ha toccato il fondo e sarebbe bene che la stampa quotidiana e i media in generale, ne prendessero coscienza, abbandonando i luoghi comuni e smettendola di abusare  di una terminologia ambigua e fuorviante. Altro che “sangue dei vinti”!

Ermanno Torrico  (Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione “E.Cappellini”-Urbino)
 

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